Il ruolo degli avvocati nell’era dell’intelligenza artificiale: opportunità o minaccia?

7 Ottobre 2024 0 Di

 

 

 

 

(PressMoliLaz) 07 Ott 24 Viviamo in un’epoca in cui il confine tra l’umano e il tecnologico si assottiglia sempre più, e l’intelligenza artificiale (IA) è diventata non solo uno strumento ma, per certi versi, un interlocutore. L’avvocatura, una professione da sempre radicata nella dimensione umana del giudizio, della retorica e dell’argomentazione, si trova di fronte a un bivio: abbracciare questa rivoluzione tecnologica o temerla come una minaccia alla propria stessa essenza.

L’avvocato, nella sua veste più autentica, non è solo un tecnico del diritto. È un interprete delle vicende umane, capace di dare forma e sostanza alle complessità del reale.

Il diritto, infatti, non è un’entità statica, ma un riflesso in continua evoluzione della vita sociale. Eppure, oggi, questa riflessione sembra destinata a passare attraverso filtri algoritmici, capaci di processare una quantità immensa di dati, di simulare la logica deduttiva. Ma davvero si può parlare di capacità di cogliere le sottigliezze dell’animo umano?

L’intelligenza artificiale ha già iniziato a lasciare il segno nel mondo legale. Software di analisi predittiva, come quelli che valutano le probabilità di successo di un caso basandosi su precedenti giurisprudenziali, promettono efficienza e rapidità, riducendo i tempi di ricerca e ottimizzando il lavoro degli studi legali. C’è però una sottile linea che separa l’efficienza dall’alienazione professionale.

Laddove l’avvocato costruiva il proprio intervento sullo studio del caso e su una riflessione basata anche sul forte supporto della sua esperienza e della sua sensibilità, ora si assiste all’ascesa di processi automatizzati, freddi e impersonali. C’è un rischio che si profila all’orizzonte: la progressiva riduzione dell’avvocato a mero “operatore di sistema”, costretto a piegarsi a logiche di produttività più che a quelle della comprensione umana.

Eppure l’algoritmo, per quanto potente, non può cogliere le sfumature di una relazione interpersonale, non può percepire il non detto, il sottile gioco di emozioni che spesso influisce più di quanto la lettera della legge possa prevedere.

In questo contesto, la vera questione non è se l’intelligenza artificiale sostituirà l’avvocato, ma piuttosto come la professione sarà trasformata da questa sorta di coabitazione. Se l’IA può essere vista come una minaccia alla parte più “romantica” della professione legale, essa può anche aprire spazi di opportunità.

Gli avvocati del futuro potranno liberarsi delle mansioni più meccaniche e noiose, dedicando più tempo a ciò che davvero conta: la strategia, l’empatia, il rapporto con il cliente, e la costruzione di un pensiero giuridico che, per quanto rigoroso, non si separi mai dall’essenza umana.

E proprio qui, nella capacità di ascoltare l’altro e comprendere le complessità della vita umana, sta la chiave della professione legale. L’avvocato è, e sempre sarà, il ponte tra la legge e la giustizia, tra il mondo delle regole e quello delle emozioni, tra il testo e il contesto. Non c’è algoritmo che possa sostituire l’intuizione, la sensibilità, la creatività, qualità che rendono l’avvocatura una professione profondamente umana.

In un mondo in cui tutto sembra velocizzarsi, dove la conoscenza diventa sempre più accessibile ma al tempo stesso frammentata, occorre trovare un nuovo percorso passando attraverso un confronto che oggi si gioca tra l’avvocato e la tecnologia, tra l’uomo e la macchina.

In definitiva, l’intelligenza artificiale non è né una banale nuova opportunità tecnologica né una minaccia assoluta. È un cambiamento che dobbiamo affrontare con la consapevolezza che, come in tutte le rivoluzioni, la vera differenza la farà sempre l’uomo, la sua capacità di adattarsi, di pensare e, soprattutto, di sentire.